Cassazione civile,
SEZIONE LAVORO, 8 gennaio 2001, n. 150
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Vincenzo TREZZA Presidente, Dott. Alberto SPANÒ Consigliere,
Dott. Mario PUTATURO DONATI Consigliere,
Dott. Natale CAPITANIO Consigliere,
Prof. Bruno Cons. Rel.
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da
S.G., rappresentato e difeso dagli avv.ti F.M. e M.M. e presso lo studio di quest'ultimo
elettivamente domiciliato in Roma alla via della Mercede, giusta procura a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
CARALT - CONCESSIONARIA DELLA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI PER LA PROVINCIA DI ALESSANDRIA - s.p.a.,
in persona del suo legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti
G.T. e G.R. e presso lo studio di quest'ultimo
elettivamente domiciliata in Roma alla via Pacuvio, giusta
procura a margine del controricorso:
- controricorrente -
avverso la sentenza del tribunale di Alessandria - Sezione Lavoro
n. 183-1999 del 29 gennaio-12 aprile 1999 nel giudizio avente il n. di
r.g. 1006-98.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
28 settembre 2000 dal relatore cons. prof. Bruno Balletti;
Uditi gli avvocati M.M. e G.R.;
Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.
Orazio Frazzini, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Fatto
Con ricorso ex art. 414 cod. proc. civ. al Pretore di
Alessandria - Giudice del Lavoro il sign. Giambattista Salatta esponeva a) di
aver lavorato alle dipendenze della "CA.R.AL. Tributi" s.p.a.
espletando le mansioni di "ufficiale esattoriale" e conseguendo negli
anni 1990-1992 la "nota di qualifica" di "ottimo"; b) di aver
ricevuto dalla società datrice di lavoro una prima lettera - in data 30 agosto
1993 - con cui gli si contestava che "dall'esame dei bollettini relativi
all'anno 1992 risultavano versate somme inferiori rispetto al riscosso per L.
11.516.080" ed una seconda lettera - in data 15 settembre 1993 - con cui
gli si comunicava che "risultavano ammanchi anche in relazione agli anni
1990-91, mentre la somma già in precedenza contestata dove essere corretta a
suo danno, sì che complessivamente risultava un ammanco nelle casse della
società a lui imputabile pari complessive L. 30.386.563"; c) di avere
provveduto a versare - a comprova della sua "buona fede" ed ancor
prima dell'invio della seconda lettera - la somma di L. 31.000.000 nelle casse
della società; d) di avere ricevuto in data 24 settembre 1993 lettera di
licenziamento per giusta causa e di avere impugnato il cennato licenziamento
con lettera in data 29 settembre 1993. Il Salatta richiedeva, quindi, all'adito
Giudice del Lavoro di voler dichiarare la nullità e l'illegittimità
dell'impugnato licenziamento con ogni relativa conseguenza.
Si costituiva in giudizio la s.p.a. "CARALT" (succeduta nelle more
alla "CA.R.AL. Tributi" s.p.a.) che impugnava integralmente la
domanda attorea e concludeva per il rigetto dell'avverso ricorso con la
condanna del ricorrente alle spese del giudizio.
L'adito Pretore - Giudice del Lavoro - dopo avere interrogato le parti, avere
ammesso ed espletato prova testimoniale ed avere disposto consulenza tecnica -
rigettava la domanda attorea e condannava il ricorrente alle spese di giudizio
(comprese quelle della c.t.u.) e, a seguito di appello della parte soccombente,
il Tribunale di Alessandria - quale Giudice del Lavoro di secondo grado -
rigettava l'appello condannando l'appellante al pagamento delle spese del
grado.
Per quanto rileva ai fini del presente giudizio, il Giudice di appello ha
rimarcato che il servizio assunto dalla s.p.a. CARALT con decreto del Ministero
delle Finanze di assegnazione del servizio di riscossione in data 21 dicembre
1989 e con decorrenza 1 gennaio 1990 "era stato caratterizzato nel periodo
iniziale da una assenza di controlli cui era seguita una fase di
riorganizzazione e seguenti ispezioni, le quali avevano portato ad una
precedente vicenda di un altro ufficiale esattoriale Cereda, con allontanamento
dello stesso, senza tacere - leggesi sempre nella sentenza del tribunale di
Alessandria - dello stesso comportamento del Salatta, il quale aveva portato
fuori dai locali dell'esattoria i suoi bollettari del 1990, riconsegnandoli, e
così rendendo possibile il controllo, solo nell'estate del 1993: tutte le
considerazioni svolte, unite al principio assolutamente pacifico in
giurisprudenza circa la necessaria relatività del requisito dell'immediatezza,
ed al giudizio circa i necessari tempi lunghi delle verifiche contabili
incrociate, portano a ritenere rispettato, naturalmente in senso relativo, il
requisito. Una riprova - conclude sul punto il Tribunale - della complessità
degli accertamenti deriva dagli stessi risultati cui è giunta la c.t.u.
contabile voluta dal Pretore, la quale ha corretto la somma risultata mancante
rispetto a quella individuata dall'ispezione interna".
Per la cassazione di tale sentenza ricorre il Salatta formulando due motivi di
annullamento, sostenuti da memoria ex art. 378 cod. proc. civ.
La s.p.a. "CARALT" resiste con controricorso.
Diritto
I -. Con il primo motivo il ricorrente - denunziando
"la violazione dell'art. 360, nn. 3 e 5, in relazione all'art. 7 della
legge n. 300-1970, quanto all'illegittimità di licenziamento in tronco per
violazione del requisito dell'immediatezza della contestazione" - addebita
al tribunale di Alessandria di avere errato nel ritenere "tempestiva"
la contestazione disciplinare (di cui alla lettera 30 agosto 1993) per pretese
infrazioni avvenute nel 1990 (e, quindi, per fatti risalenti addirittura a tre
anni prima) e nel considerare giustificato il ritardo della contestazione in
quanto "all'assegnazione della CARALT del servizio di riscossione dei
tributi (avvenuta con decorrenza 1 gennaio 1990) era seguita una fase di
riorganizzazione con possibilità di controllo solo nell'estate del 1993".
Nel rilevare che il mancato esercizio, per un lungo periodo di tempo, del
dovere - potere di controllo da parte della società si era tradotto in un grave
danno per la difesa del lavoratore così tardivamente inquisito, il ricorrente
si riporta all'orientamento giurisprudenziale - secondo cui agli accertamenti
ed alla immediatamente successiva contestazione disciplinare "non debbono
essere frapposti indugi" e tale prescritta immediatezza "deve essere
valutata anche in relazione alla possibilità che la reazione del lavoratore
risulti utile al medesimo sia ai fini di un'efficace giustificazione che ai
fini di una graduazione della sanzione in proporzione al singolo addebito di
volta in volta accertato" - ed insiste per la declaratoria di
illegittimità dell'intimato licenziamento in tronco per essere lo stesso
carente del requisito dell'immediatezza.
Con il secondo motivo di ricorso viene censurata la sentenza del Tribunale di
Alessandria per "violazione dell'art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., in
relazione all'art. 2119 cod. civ., quanto alle modalità di riscossione e di
versamento in cassa e sulla inesistenza di una ipotesi di giusta causa di
risoluzione del rapporto di lavoro, che deve rivestire il carattere di grave
negazione degli elementi del rapporto di lavoro e, in particolare all'elemento
della fiducia, che deve effettivamente sussistere tra le parti". Su tale
punto il ricorrente evidenzia che "è, comunque, necessario che il venir
meno della fiducia sia riferito a concreti fatti addebitati al ricorrente e
dimostrati nella loro oggettiva sussistenza, non essendo sufficiente che si
colleghi ad un mero apprezzamento soggettivo del datore di lavoro" e
rimarca che, nella specie, "la procedura seguita dalla CARALT (che non ha
consentito in alcun modo al dipendente di poter controllare, con ricevute che
non ha mai avuto, la fondatezza degli addebiti che gli venivano mossi) e le
particolari modalità di gestione della cassa (che possono avvalorare l'ipotesi,
non smentita e certamente concretamente realizzabile, della possibilità di
sottrazione di denaro e dei bollettini prima che il cassiere provvedesse alla
chiusura giornaliera) permettono di concludere che non è in alcun modo
possibile affermare che gli "ammanchi" attribuiti al Salatta (assolto
nel processo penale per i medesimi fatti di cui al procedimento disciplinare) debbano
essere, necessariamente, a lui attribuibili".
II -. Il ricorso si appalesa relativamente al motivo con cui è stata censurata
la sentenza del tribunale di Alessandria per avere ritenuto che il
licenziamento de quo fosse stato tempestivamente intimato.
Nell'ambito del procedimento disciplinare regolato dall'art. 7 della legge n.
300-1970 è da rilevarsi - in linea generale - che la contestazione deve
avvenire in immediata connessione temporale con il fatto, con la precisazione
che il requisito dell'immediatezza ha da essere interpretato con ragionevole
elasticità, ma, comunque, in maniera da evitare che il datore di lavoro possa
ritardare la contestazione in modo da rendere difficile la difesa del
lavoratore (cfr. Cass. n. 5423-1989, Cass. n. 3845-1987); in particolare, nel
licenziamento per motivi disciplinari, il difetto dell'immediatezza della
contestazione pone in evidenza la carenza di uno dei requisiti prescritti dalla
legge per intimare validamente il licenziamento per giusta causa, id est la
concreta essenza di un fatto "che non consente la prosecuzione neppure
provvisoria del rapporto" secondo la formulazione dell'art. 2119 cod. civ.
Il principio dell'immediatezza e della tempestività riguarda, ad un tempo, sia
la contestazione degli addebiti sia l'irrogazione della sanzione e trova il suo
fondamento nell'art. 7 cit. (un terzo e quarto comma), che riconosce al
lavoratore incolpato il difetto di difesa: che deve essere garantito nella sua
effettività, soprattutto, nel senso di una contestazione ad immediato ridosso
dei fatti contestati, sì da poter consentire al lavoratore l'allestimento del
materiale difensivo (documentazione, testimonianze, ecc.) per contrastare nel
modo più efficace il contenuto delle accuse rivoltegli dal datore di lavoro -
tutto ciò senza considerare il giusto "affidamento" del prestatore,
nel caso di ritardo nella contestazione, che il fatto "incriminabile"
possa non avere rivestito una connotazione "disciplinare", dato che
l'esercizio del potere disciplinare non è, per il datore di lavoro, un obbligo,
bensì una facoltà.
A questo si aggiunge quanto viene riconosciuto dalla dottrina (ed estendendo le
conclusioni alle quali essa perviene) sulla necessità di usare - quale chiave
di lettura dell'esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro (a cui
l'ordinamento, vale evidenziarlo, ha riconosciuto la facoltà del tutto
peculiare di irrogare "pene private" al prestatore di lavoro) - il
principio della "buona fede" al fine di evitare che sanzioni
disciplinari irrogate senza consentire all'incolpato un effettivo diritto di
difesa (o rendendo difficile l'esercizio dello stesso) si pongano non solo come
violazione della cennata norma di legge, ma anche quale trasgressione in re
ipsa della buona fede che è matrice fondativa dei doveri sanciti dall'art. 7
cit. e, anche, dall'art. 2106 cod. civ.
(relativamente alla "proporzionalità" delle sanzioni): norme poste
dall'ordinamento per riequilibrare, ex art. 3, capoverso, Cost., la posizione
delle parti impegnate nel rapporto di lavoro solo formalmente in situazione
paritaria, in quanto, nella realtà effettuale, il lavoratore adempie alla
propria obbligazione in posizione di subordinazione (scilicet,
"soggezione") rispetto alla controparte contrattuale!.
Nella specie, l'affidamento legittimo del lavoratore - derivante, giova
ribadirlo, dall'applicazione di specifica norma e del principio della buona
fede - non può essere "deluso" (vulgus, posto nel nulla) da una
tardiva contestazione disciplinare e tale vizio nel non corretto esercizio di "fatto"
del potere determina, conseguentemente, una preclusione nel legittimo esercizio
del medesimo potere datoriale e rende invalida la sanzione irrogata in
contrasto con il principio dell'immediatezza.
In giurisprudenza l'applicazione del cennato principio è stata "temperata"
nel senso che l'immediatezza della contestazione dell'addebito deve essere
intesa in un'accezione "relativa" essendo compatibile con un
intervallo di tempo necessario al datore di lavoro per il preciso accertamento
delle infrazioni commesse dal prestatore (cfr., ex plurimis, Cass. n.
11095-1997).
Proprio l'estensione giudiziaria dell'applicazione del principio
dell'immediatezza "in senso relativo" ha molto spesso svuotato di
efficacia il principio stesso, sicché siffatta applicazione ha finito per diventare
una formula dissimulante un'arbitraria escogitazione giudiziale certamente
incompatibile con la norma dell'art. 7 della legge n. 300-1970 ed anche con
l'esigenza di una razionale amministrazione dei rapporti contrattuali secondo
"buona fede".
Con questo non si intende certo affermare che il principio dell'immediatezza
debba essere applicato dal giudice entro un termine "perentorio", non
indicato dalla legge, ma che la discrezionalità del giudice nel valutare il
carattere della tempestività della contestazione disciplinare non può che
svolgersi nell'ambito dei presupposti alla base del principio
dell'immediatezza, ossia del riconoscimento del pieno ed effettivo diritto di
difesa garantito ex lege al lavoratore e del comportamento datoriale secondo buona
fede.
Di conseguenza, tra l'interesse del datore di lavoro di prolungare le indagini
senza uno specifico motivo obiettivamente valido con onere probatorio a suo
carico (cfr. Cass. n. 8200-2000)! e il diritto del lavoratore ad una pronta
effettiva difesa, non vi è dubbio che debba prevalere la seconda posizione;
così nel caso in cui il datore di lavoro rinvii la contestazione al fine di
utilizzare l'eventuale reiterazione dell'infrazione come elemento di maggiore
gravità per l'irrogazione della sanzione; parimenti quando il datore, a causa
di sue carenze organizzative o di sue colpose omissioni, ritardi indebitamente
la contestazione disciplinare.
IN definitiva, quanto ritenuto dalla giurisprudenza in merito alla
"ragionevole elasticità", con cui deve essere interpretato il
requisito dell'immediatezza, ha da essere precisato nel senso che il giudice
deve applicare il "principio dell'immediatezza" a norma dell'art. 7
della legge n. 300-1970 - valutando anche il comportamento del datore di lavoro
alla stregua degli artt. 1375 e 1175 cod. civ. - e può dallo stesso
eccezionalmente discostarsi, indicando correttamente (sempre nell'ambito della
cennata normativa) le ragioni che lo hanno in dotto a non ritenere illegittima
una contestazione fatta non a ridosso immediato dell'infrazione.
III-. Tanto rimarcato, dalla sentenza del tribunale di Alessandria si evince
che l'infrazione disciplinare contestata dalla società datrice di lavoro al
prestatore con lettera datata 30 aprile 1993 riguardava sostanzialmente la differenza
delle somme "riscosse" nel 1992 rispetto a quelle "versate in
meno in contabilità" per detto periodo e l'infrazione contestata con la
successiva lettera datata 15 settembre 1993 riguardava la differenza delle
somme "riscosse" nel 1990 e 1991 rispetto a quelle "versate in
meno in contabilità" per detto periodo.
Pertanto, il "mancato versamento nelle casse della società" delle
somme riscosse nel 1992 è stato contestato disciplinarmente al Salatta con un
ritardo che va da un massimo di venti mesi ad un minimo di otto mesi e la
medesima infrazione relativa agli anni 1990 e 1991 è stata contestata con un
ritardo di quarantaquattro-trentatrè mesi: ritardo delle contestazioni
sicuramente eccessivo e che fanno obiettivamente ritenere con assoluta certezza
che la società CARALT non abbia rispettato il principio dell'immediatezza delle
contestazioni nell'instaurare il procedimento disciplinare nei confronti del
Salatta.
Ma il Giudice di appello - per statuire la legittimità della sanzione
disciplinare come dinanzi irrogata - ha affermato di "ritenere rispettato,
"naturalmente" in senso relativo, il requisito
dell'immediatezza" motivando che: 1) il servizio di riscossione dei
tributi, assunto dalla CARALT in data 1 gennaio 1990, "era stato
caratterizzato nel periodo iniziale da una assenza di controlli, cui era
seguita una fase di riorganizzazione e seguenti ispezioni" 2)"il
"Salatta aveva portato fuori dai locali dell'esattoria i suoi bollettari
del 1990, riconsegnandoli, e così rendendo possibile il controllo, solo
nell'estate del 1993"; 3) erano stati necessari "tempi lunghi per le
verifiche contabili incrociate ed una riprova della complessità degli
accertamenti deriva dagli stessi risultati cui è giunta la c.t.u. contabile
voluta dal Pretore, la quale ha corretto la somma risultata mancante rispetto a
quella individuata dall'ispezione interna".
Le ragioni addotte dal Giudice di appello per introdurre la formula della
"relativa del requisito dell'immediatezza" non possono dare la loro
evidente erroneità, essere condivise, attesoché: 1-a) un periodo di tre anni e
otto mesi non può essere fatto rientrare nell'ambito di un "periodo
iniziale", necessario, ai fini organizzativi, per subentrare nel servizio
di riscossione (che, per l'intrinseco carattere proprio di detto periodo -
definito appunto, "iniziale" -, ragionevolmente non poteva essere di
durata superiore ad alcuni mesi); 1-b) mentre l'infrazione relativa all'anno
1992 è stata contestata il 30 agosto 1993, l'infrazione relativa agli anni 1990
e 1991 è stata contestata a distanza di soli quindici giorni (rispetto alla
precedente contestazione), a chiara dimostrazione della facilità estrema degli
accertamenti per appurare eventuali differenze tra l'"incassato" e il
"versato" (ciò, anche se non veniva rispettata una cadenza
"quotidiana", ma "settimanale", dei versamenti da parte del
dipendente); 1-c) la disorganizzazione amministrativa nella conduzione
aziendale della società - riferita anche nella sentenza di
"assoluzione" pronunziata dal G.I.P. del tribunale di Alessandria del
15-22 dicembre 1994 (citata nella sentenza impugnata), ove si conclude che
"vi era una situazione di assoluto disordine gestionale" - non può
ricadere ai danni della posizione del lavoratore così come tutelata
dall'ordinamento; 2-a) la circostanza che il "Salatta abbia portato fuori
dall'azienda i bollettari del 1990" non ha formato oggetto - come emerge
dalla stessa sentenza - di contestazione disciplinare, per cui non può essere
fatta valere in giudizio per aggravare surrettiziamente gli addebiti a carico
dell'incolpato, data la prescrizione legislativa di "immodificabilità
della contestazione" (in ogni caso, la cennata circostanza, limitata com'è
ai "bollettari del 1990", non può riguardare le pretese infrazioni
relative agli anni 1991 e 1992 3-a) l'asserita complessità delle verifiche
contabili non può legittimare il ritardo di molti mesi e-o di alcuni anni nel
contestare le infrazioni e, comunque, non può ritenersi confermata dalle
risultanze della consulenza tecnica disposta in sede giudiziaria, sia per il
diverso ambito di espletamento della stessa in contraddittorio tra le parti,
sia per la differente funzione rispetto all'accertamento derivante dai dati
della contabilità aziendale di conoscenza effettiva e di pertinenza esclusiva
dall'imprenditore.
IV -. Si deve, di conseguenza, escludere che nella specie potesse applicarsi in
senso cd. "relativo" il principio dell'immediatezza, non sussistendo
alcun valido motivo per fare ricorso ad una ragionevole elasticità al fine di
giustificare l'irrimediabile ritardo con cui la CARALT ha contestato al Salatta
le infrazioni in questione.
Ribadita, quindi, la mancanza assoluta del requisito dell'immediatezza nella
contestazione disciplinare, di cui alle lettere della CARALT in data 30 agosto
1993 e 15 settembre 1993, ne deriva l'illegittimità della sanzione disciplinare
irrogata - e, precisamente, del licenziamento per giusta causa intimato in
violazione dell'art. 7 della legge 20 maggio 1970 n. 300 e, comunque, dell'art.
2119 cod. civ. con reintegra del Salatta nel suo posto di lavoro con ogni
relativa conseguenza.
V-. Il primo motivo di ricorso deve, pertanto, essere integralmente accolto -
restando così assorbito il secondo motivo - e, di conseguenza, la sentenza del
tribunale di Alessandria va cassata, A) decidendo "nel merito" ex
art. 384 (secondo alinea del primo comma) cod. proc. civ. in ordine al
"capo" dell'originaria domanda giudiziale dell'odierno ricorrente
concernente l'impugnativa del licenziamento e la richiesta di reintegra la
lavoro - per cui deve essere dichiarata l'illegittimità del licenziamento
disciplinare irrogato dalla s.p.a. CARALT, con lettera in data 24 settembre
1993, nei confronti di Salatta Giambattista e deve essere disposta l'immediata
reintegrazione (ex art. 18 della legge n. 300-1970) dello stesso nel suo posto
di lavoro presso detta società - e B) rimettendo la causa ad altro giudice ex
art. 384 (primo alinea del primo comma) cod. proc. civ. limitatamente al
"capo" dell'originaria domanda giudiziale concernente la richiesta di
risarcimento del danno derivante dell'illegittima estinzione del rapporto
lavorativo - per cui deve essere demandato al designato Giudice di rinvio di
quantificare il risarcimento del danno (ai sensi della summenzionata normativa)
derivato dalla statuità illegittima del cennato licenziamento per giusta
causa-.
Il Giudice del rinvio provvederà, inoltre, alla liquidazione delle spese
dell'intero processo.
P.Q.M
accoglie il ricorso di Salatta Giambattista, cassa la
sentenza impugnata e, "decidendo nel merito", dichiara illegittimo il
licenziamento per giusta causa intimato dalla s.p.a. CARALT a Salatta
Giambattista con lettera in data 24 settembre 1993 e dispone l'immediata
reintegrazione dello stesso Salatta nel suo posto di lavoro; limitatamente alla
domanda relativa al risarcimento del danno conseguito all'illegittimo
licenziamento, rinvia la causa - anche per le spese - alla Corte di Appello di
Torino.
Così deciso, in Roma, il giorno 28 settembre 2000.